lunedì 22 agosto 2016

L'inversione della zoccola

Ho sempre pensato, come è consuetudine, che zoccola fosse una "donna di facili costumi", una che si concede a molti uomini, non sempre per denaro.
E' stato mio marito a fornirmi un rovesciamento di prospettiva illuminante, che mi ha consentito di formulare una teoria, l'inversione della zoccola, appunto, che potrebbe rivoluzionare millenni di storia.
La definizione abituale di zoccola infatti si appoggia su una tradizione secolare di società patriarcale e generalmente maschiocentrica e individua come elemento attivo l'uomo, perdendo completamente di vista l'ottica femminile introspettiva, e sfumando i contorni dell'individuo di interesse, la zoccola, fino a renderla poco più di un oggetto, non diversa da una bambola gonfiabile. In quest'ottica la donna non compie una scelta consapevole, ma di fatto si fa scegliere, si fa raccogliere non diversamente da un'erbaccia, o in modo più poetico come un fiore di campo.
Concentrando però l'attenzione sulla zoccola, risulta evidente che la sua peculiarità è quella di essere una tra tante, ovvero di scegliere di condividere il proprio uomo con altre donne, più o meno consciamente altrettanto zoccole.
Si passa quindi dalla definizione di zoccola tipicamente maschile come "colei che si concede a molti" a una definizione più profonda e vicina alla visione femminile: "colei che condivide il proprio uomo".

Ho paura del velo islamico, e vi spiego il perché.


Lo ammetto, il velo islamico, in tutte le sue molteplici forme, mi spaventa; mi spaventa tanto da provare a volte l'impulso di strapparlo, quel velo, insieme a tutto ciò che rappresenta nel mio immaginario di figlia -o nipote- del '68 e delle lotte femministe.
Mi vergogno di questa paura irrazionale, e se la analizzo mi rendo conto che non è lontana in fondo dalla paura del buio o dei mostri sotto letto.
Da bambini, il buio ci fa paura perché non possiamo determinare con i nostri sensi cosa si nasconda al di là della cortina scura. Nello stesso modo oggi mi spaventa il non sapere cosa si nasconde al di là di una diversa, ma ugualmente impenetrabile, cortina nera. Non essere in grado di determinare a priori quale scelta e quale livello di consapevolezza abbia portato la persona che mi sta davanti a coprirsi il capo, o il volto, o entrambi, mi lascia confusa e stordita.
Nel nostro quotidiano, nonostante facili perle sagge ma ben poco realistiche, sappiamo bene che l'abito fa il monaco, e dall'abito -fatto non solo di stoffa, ma anche di atteggiamenti, comunicazione non verbale, parole- siamo in grado di distillare una quantità di informazioni sugli individui, le loro scelte, ed in parte anche i loro valori e ideologie. Questa conoscenza, per quanto superficiale, ci consente di creare nella nostra mente un modello impreciso ma utile della società e dei suoi attori, e di adeguare -ricordate Zelig?- il tono, la mimica ed in generale il nostro io esteriore all'interlocutore. Non sto naturalmente parlando di amici o anche conoscenti, ma di quei rapporti umani continui ed indispensabili col negoziante, il vicino di posto in metropolitana o in coda al supermercato. Quegli incontri-scontri che impattano esclusivamente l'io esteriore, e che da questo sono gestiti in modo semi-automatico ed inconscio. Ma nel buio, il nostro io esteriore non sa a cosa né come adeguarsi. Ed è qui che entrano in gioco i "mostri". Si, proprio quelli che si nascondono sotto il letto, brutti e spaventosi. Quelli che nelle favole di una volta -oggi no: non è politically correct... Ma questa è un'altra storia- erano pronti a mangiarsi i bambini strappandoli alla mamma -se ancora l'avevano- ed a distruggere i loro sogni di un futuro felice e radioso.
Ho sempre pensato che i mostri, lungi dall'essere rappresentazioni arcane di pericoli pseudo-psicologici, fossero un modo pratico e veloce per dimostrare ai bambini che esistono pericoli reali e vicini, siano essi i lupi del bosco o i ben più pericolosi lupi delle metropoli -ecco perché non amo molto le favole troppo buoniste- ed insegnare loro che da tali pericoli è meglio stare alla larga. I mostri, quindi, sono il ricordo vivo e preciso di pericoli reali. Ed i pericoli più sentiti e più temuti sono quelli più vicini, in termini spaziali e temporali.
E' passato un soffio dal diritto di voto alle donne, dalla soppressione del delitto d'onore e dei matrimoni riparatori. Pochi attimi dalla promulgazione delle leggi sul divorzio e sull'aborto. Noi, donne occidentali e "libere", sappiamo che la parità uomo-donna è ancora lontana, e che basta poco per tornare indietro e perdere tutto ciò per cui le nostre mamme e nonne hanno lottato.
Per noi che abbiamo bruciato i reggiseni in piazza un capo velato rappresenta un passo verso quel baratro ancora troppo vicino, e ne abbiamo paura, così come da bambine avevamo paura che un mostro ci strappasse dal nostro lettino.
Una volta cresciute, però, abbiamo imparato che i mostri da temere non sono quelli delle favole, e la nostra paura, da irrazionale, si è fatta più razionale e legata a persone e situazioni reali. E con la medesima razionalità dovremmo oggi gestire la paura del velo islamico, vigilando in ogni momento che nessun passo indietro venga fatto, e continuando a lottare per tutti i principi di eguaglianza e parità che ci ispirano da decenni.
Parafrasando Voltaire (anche se pare che la famosa citazione sia una bufala), non mi piace che tu porti il velo, ma lotterò fino alla morte perché tu possa portarlo se lo vuoi, e perché tu possa strappartelo via se non lo vuoi.
Ma perché io lotti per il diritto di una donna a portare il velo, proprio perché non mi piace e non lo capisco, pretendo che che sia dimostrato ogni ragionevole dubbio che quella scelta sia realmente libera e consapevole, almeno quanto può esserlo una qualunque scelta; tutti i miei valori, le mie tradizioni, la storia mia e delle donne prima di me ruggiscono contro quel capo velato.
Chiedo quindi, a tutte ed a ciascuna: dimostratemi che volete il velo. Datemi gli strumenti per difendere la vostra scelta, o rassegnatevi alla mia paura.




giovedì 18 agosto 2016

Pane, burkini e fantasia

Come sempre negli ultimi tempi, quando si parla di Islam, l'ennesimo dibattito inutile ha infiammato web e media. Burkini si o no? Giusto vietarlo, necessario ammetterlo? Premesso che ritengo che ciascuno debba vestirsi come gli pare, ho la sensazione che l'argomento nasconda una domanda ben più sottile e pressante ovvero: come possiamo aiutare le donne islamiche a liberarsi senza nel contempo offendere la loro cultura, le loro tradizioni, i loro valori? E' infatti indubbio che tra le centinaia (sono sicura che non sono di più...) di donne che si presentano sulle nostre spiagge vestite come palombari ve n'è alcune che scelgono, alcune che non possono scegliere, ed alcune che neppure si rendono conto che esiste una alternativa.
Trovo piuttosto stupido voler risolvere la questione con un divieto. Il burkini, come il burqua il niquab e simili, sono per noi un sintomo di un male strisciante, mentre per l'Islam sono un simbolo di appartenenza. Il mondo occidentale si intestardisce a voler curare il sintomo, e questo viene letto come un rifiuto del simbolo, con tutta l'irritazione che ne deriva.
La malattia che noi osserviamo nel mondo islamico è molto difficile da curare in modo sistemico, e riguarda l'assenza di libertà femminile (ancora maggiore che da noi, intendo).
Vedo poche strade per curare in modo sistemico tale malattia, e passano tutte dalla cultura e dalla informazione. Mi piacerebbe, ad esempio, che assistenti sociali e mediatori culturali avvicinassero quelle donne, e ponessero loro, ed ai loro mariti, due semplici domande:

  1. Perché indossi/a il Burkini?
  2. Cosa succederebbe se non lo indossassi/e?

Dalle risposte si potrebbe poi effettuare una analisi dei reali valori che stanno dietro a quella scelta, si potrebbe spiegare loro che anche le nostre nonne vestivano così, ma poi abbiamo capito che il costume da bagno è più comodo, si potrebbe osservare se in famiglia ci sono vessazioni o violenze. Ma dovremmo essere pronti ad accogliere e proteggere tutte le donne che fossero pronte a scegliere, e non è facile in un paese che non sa accogliere e proteggere neppure le sue donne "libere".

mercoledì 10 agosto 2016

Rio 2016: cicciottelle e panciuti... E se si provasse a parlare di sport?

Non sono mai stata una fanatica di sport, ma le olimpiadi mi hanno sempre affascinata. Un raduno così grande e così breve di tanti e tante atlete del mondo intero. Così tanta energia e forza e passione, concentrate in luogo e un tempo tanto ristretti. Nel 2008  le doglie del parto mi hanno colta mentre guardavo le finali di atletica, nel 2004 seguivo le gare con il mio bimbo neonato (un'altro, ovviamente...) tra le braccia. Nel Settembre 2000 le radiocronache da Sydney accompagnavano i miei viaggi notturni da Parigi a Pavia, dove stavo organizzando il mio matrimonio. Ma mai come quest'anno ho avuto la sensazione che lo sport fosse l'ultimo degli argomenti affrontati dai media.
Ovunque si parla di cicciottelle, di atleti panciuti, si commenta la forma imperfetta dell'uno o dell'altra.
Le donne sono ovviamente il bersaglio di tali commenti molto più spesso degli uomini, dimostrando, ancora una volta, che certe abitudini sono davvero dure a morire: come se fosse troppo difficile parlare di una professionista -dello sport in questo caso- senza scadere in (dis)-apprezzamenti che con la sua professionalità, competenza, capacità proprio non c'entrano.
Non è questione di politically correct o uncorrect: non mi sarei infastidita meno se le tre arciere fossero state definite "floride" o "graziose" o anche "bellissime" anziché "cicciottelle": il punto è che il loro aspetto fisico non c'entra nulla con l'argomento di cui si sta parlando, che, pensate un po', è il tiro con l'arco (sport che peraltro praticavo anche io, da cicciottella, eoni fa).
Si può parlare della loro forza, dell'impegno. Si possono approfondire la loro tecnica ed i loro stati d'animo. Ci si può sbizzarrire anche chiedendosi da quanto, per quanto e quando si allenano, per arrivare a sfiorare il bronzo alle olimpiadi. Sono tanti gli argomenti senza dover per forza rispolverare il trito e ritrito aspetto fisico.
E quindi, suvvia, leggiamoci tutti questa bella guida di Lindy West, apparsa sul Guardian di ieri, che spiega come parlare delle olimpiche, senza essere (secondo le parole di Lindy) dei "vermi retrogradi"
https://www.theguardian.com/commentisfree/2016/aug/09/female-olympians-guide-gaffes-athletes-sports-makeup-shorts-marital-status-lindy-west

martedì 9 agosto 2016

Rio 2016: atlete velate e buonismo imperante



Prendo spunto dalle immagini pubblicate da molti quotidiani, che confrontano l'abbigliamento della squadra tedesca di beach volley con quello della squadra egiziana. 
Molti osannano la coerenza delle magrebine, e salutano il match come un inno all'integrazione tra culture. Molti, addirittura, giudicano l'abbigliamento standard delle atlete di beach volley eccessivamente ridotto, e finalizzato alla s-vendita in ottica sponsorship del corpo femminile. 
Per fortuna non mi si fila nessuno, e quindi posso dire la mia: onestamente a me quelle ragazze, coperte come sotto una bufera di neve e visibilmente stravolte fanno tristezza. E mi fa tristezza pensare che siano convinte di aver scelto liberamente di vestirsi così. 
Suvvia, siamo onesti: alzi la mano chi sostiene che la tenuta della squadra egiziana sia
  1. più comoda
  2. più elegante
  3. più bella
  4. più funzionale
  5. più ergonomica
  6. più qualsiasi cosa vi possa venire in mente.
Per me è solo più offensiva e discriminatoria. Mi offende l'idea che sia necessario nascondere il corpo femminile. Mi offende che si pensi che una donna si spogli solo per soldi, e non per la propria comodità, gioia, piacere. Mi offende l'idea che chiunque, in qualsiasi posto del mondo, possa decidere quanto devo coprirmi.
E crederò alla libertà ed alla integrazione solo quando vedrò fianco a fianco nello stesso campo una ragazza in bikini ed una in pseudo-burqua, senza che la nazione cui appartengono abbia qualcosa da ridire.
E' stato in occasione di Londra 2012 che sono state modificate le regole per l'abbigliamento delle atlete, per consentire anche maglie e pantaloni lunghi. E mi chiedo quando verrà abbassato il tabellone del canestro, per consentire ai pigmei di giocare...
E giusto per aggiungere una piccola curiosità: qualcuno si ricorda della polemica scoppiata in occasione di Sidney 2000? Le atlete si lamentavano della nuova divisa, un bikini ritenuto troppo succinto...
http://www.repubblica.it/online/sport/beach/beach/beach.html

lunedì 8 agosto 2016

Marissa Mayer... E se fosse tutta invidia??

Negli ultimi giorni si è fatto un gran parlare e polemizzare sull'intervista a Marissa Mayer, AD di Yahoo. La signora viene accusata di ogni nefandezza, ma la peggiore di tutte è l'accusa di "non essere una buona madre" in quanto, alla nascita del suo primogenito, ha rinunciato al congedo di maternità...

Prima di qualsiasi commento vi propongo uno stralcio dell'intervista.

Lei è diventata madre per la prima volta poco dopo essere stata assunta in Yahoo, ed ha avuto due gemelle in dicembre, mentre la guerra di deleghe (ci si riferisce qui all'acquisizione da parte di Verizon n.d.t.) si stava preparando. Come ce l'ha fatta?
La società non poteva permettersi che il CEO stesse a casa per 4 o 6 mesi, così ho fatto in modo di gestire mio figlio all'interno della mia routine quotidiana. Lo tenevo in ufficio durante le call conference... [omissis]
La disturbano le critiche sulle sue scelte parentali?
A mio modo di vedere, quando si tratta di maternità si tende a giudicare troppo. Ci sono madri che vogliono lavorare; ci sono madri che hanno bisogno di lavorare; ci sono madri che vogliono stare a casa e madri che hanno bisogno di stare a casa. Uno dei migliori consigli che abbia mai ricevuto è che ci sono sempre moltissime buone decisioni, e poi c'è la decisione che assumi e che rendi parte integrante della tua vita. Nel mio caso, non ho scelto di rinunciare alla maternità; è semplicemente andata così. Avevo un bambino sano, e una azienda che aveva bisogno di me, e ho fatto in modo di conciliare le due cose...

Le parole della Mayer mi hanno dato da pensare; quante donne da noi possono permettersi di portare il figlio in ufficio, per garantire a lui ed all'azienda il massimo della continuità?
Quante aziende in Italia propongono nidi aziendali che consentano di gestire fin dai primissimi mesi del pargolo un equilibrio maternità-lavoro che non danneggi il bambino, né l'azienda?
E ancora, quante donne sarebbero disposte a fare delle scelte simili, invece di sfruttare ogni giorno disponibile di maternità?
La risposta alle tre domande è la medesima: pochissime.
Si scontrano infatti due fattori: da un lato la scarsità di supporti socio-economici che realmente facilitino la vita alle donne (leggasi:assenza di asili nido o costi spropositati), dall'altra un malcompreso senso della maternità, che impone alle donne l'obbligo di occuparsi in modo esclusivo del bambino, almeno nei suoi primi mesi. E se il giusto, come spesso accade, stesse nel mezzo?
Ritengo che una maggiore disponibilità da parte delle mamme a delegare la gestione dei bambini da un lato, ed a rinunciare a una parte dei privilegi dall'altra, potrebbe innescare finalmente un circolo virtuoso di collaborazione donna-azienda, nel quale sarebbero superati i preconcetti che vedono la donna in età fertile come un acquisto in perdita, e l'azienda come un cerbero che non consente alle madri l'adeguata carriera.
Passi significativi in questo senso si stanno facendo nella maggior parte dei paesi civili (no, non l'Italia...), nei quali si consente, ad esempio, alle deputate di allattare nel corso delle sedute fiume del parlamento (in Gran Bretagna e Australia).
Io di figli ne ho tre, e non ho dimenticato che la loro attività principale, per diversi mesi, era dormire. Ricordo bene che durante la mia prima gravidanza stavo seguendo un master universitario con obbligo di frequenza, e la mia primogenita, a 4 giorni di vita, mi accompagnava a lezione senza mai disturbare. Certo, ogni 3 o 4 ore dovevo assentarmi per qualche minuto per allattarla e cambiarla, ma non mi sono mai sentita obbligata a rinunciare alle lezioni, anche grazie alla comprensione dei docenti, ed al fatto che lei fosse un angelo. Non credo che la situazione sarebbe stata diversa se invece che in un'aula universitaria fossi stata in un ufficio, ma mi chiedo se avrei avuto il coraggio di farlo, e se avrei trovato negli imprenditori o nei manager la medesima comprensione. Ecco, probabilmente il punto è questo: trovare il modo di far capire alle aziende che le donne non diventano un peso quando diventano mamme, e alle donne che un figlio non è una palla al piede che deve confinarti e impedirti di proseguire con la tua vita. Insomma, come al solito è una questione di comunicazione.
E tanto per chiarire, io per la Mayer (per quanto il suo approccio all'americana sia indubbiamente eccessivo) provo una certa ammirazione, ed una buona dose di invidia...

Per chi volesse leggersi l'intervista:
Yahoo’s Marissa Mayer on Selling a Company While Trying to Turn It Around:




venerdì 5 agosto 2016

Bruciamo il niqab... ma quello di ricambio!!

Oggi sui siti dei maggiori quotidiani nazionali è comparso un video dal titolo suggestivo: "Bruciamo il burqua" (o il niquab, secondo altre fonti...)



E' un vero peccato che nessuno abbia sottolineato, e forse neppure notato, che le donne del video il niquab lo indossano...
Non so quale sia l'obbiettivo dei media, se farci credere che le donne sono pronte alla ribellione -cosa palesemente e tristemente falsa- o convincerci che gli interventi in Siria stanno liberando un popolo oppresso e sofferente.
Quello che è certo è che qualunque fosse il significato di quel video, le protagoniste lo hanno vissuto in modo totalmente diverso da come noi potremo mai interpretarlo. Mi viene il dubbio che a bruciare fosse molto più semplicemente e comprensibilmente la bandiera dell'ISIS, viceversa, ve le immaginate le femministe a bruciare i reggiseni indossando il corsetto??
Proprietà e gestione di Alessandra Vandone Dell'Acqua - Mastro Ragnatela